Mentre l’Italia è alle prese con una campagna elettorale “balneare”, con collegamenti da lidi vacanzieri, proprio su quelle spiagge si consuma un silente dramma che minaccia la nostra sopravvivenza, ma di cui non c’è traccia nei programmi politici. Secondo l’Onu il futuro dell’umanità è messo a rischio da oltre 10 milioni di tonnellate di plastica l’anno, che spesso finiscono nelle acque di mari, laghi e fiumi. Questo ha fatto sì che negli oceani del mondo se ne siano accumulate già più di 150 milioni di tonnellate, ai quali si aggiungono annualmente altri 4,6 -12,7 milioni. Fanno parte dei Marine-litter, detriti o rifiuti marini creati dall’uomo che sono stati rilasciati deliberatamente o accidentalmente in un mare o in un oceano e costituiscono una delle priorità da affrontare per preservare la salute del Pianeta. Il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) informa che circa l’80% dei rifiuti marini ha origine sulla terraferma (perdite di petrolio, dispersione di sostanze chimiche e fertilizzanti, scarico di acque non depurate, rifiuti abbandonati dalle persone) e con la pandemia la situazione è purtroppo peggiorata.
I rifiuti marini sono di orine antropica
I Marine.litter provengono dai 195 paesi con confini costieri, ma per l’83% derivano da 20 Paesi che gestiscono male i rifiuti, corrispondenti alle aree con più densità di popolazione. Questo fenomeno nasce, infatti, da cattive pratiche di gestione dei rifiuti solidi e del trattamento delle acque reflue (comprese le acque derivanti da fenomeni meteorologici), dalla mancanza di infrastrutture e dalla mancanza di consapevolezza delle persone sulle conseguenze delle loro azioni. Tra le 15 coste più inquinate troviamo Port Phillip Bay in Australia, Haina Beach nella Repubblica Dominicana, Doheny State Beach in California (USA), Chowpatty Beach in India, Marunda Beach in Indonesia, Odaiba Bay in Giappone. Blackpool Beach in Gran Bretagna, Repulse Bay a Hong Kong, Huntington Beach in California (USA), Seminyak Beach a Bali, Great Pacific Garbage Patch nell’Oceano Pacifico, North Atlantic Garbage Patch nell’Oceano Atlantico, la Zona morta del Golfo del Messico e Cuba, Nakoso Beach in Giappone e Fujiazhuang Beach in Cina.
Anche in Italia isole di plastica invisibili
L’Italia ha compiuti alcuni passi significativi verso il contrasto a questo fenomeno, facendo da apripista con un provvedimento sulla messa al bando degli shopper in plastica e con un emendamento alla legge di Bilancio 2018, che ha vietato, primi al mondo, dal primo gennaio 2019 i cotton-fioc non biodegradabili e dal primo gennaio 2020 le microplastiche nei cosmetici. Anche il recente DL Salvamare “per il recupero dei rifiuti in mare e nelle acque interne e per la promozione dell’economia circolare” si spera sia presto operativo. Ma non basta, perché anche il nostro Paese nasconde delle vere e proprie isole di plastica. I campioni di acqua superficiale rilevati da Greenpeace nel 2021 hanno rivelato da 0,2 a 0,6 pezzi di microplastiche per metro cubo nella zona ligure e 4 pezzi per metro cubo dove le correnti concentrano i rifiuti tra Toscana e Corsica. Quattro pezzi per metro cubo significano più o meno 2,5 milioni di pezzettini di plastica per chilometro quadrato di mare.
Sui fondali situazione ancora peggiore
Secondo i ricercatori del Cnr e dell’università delle Marche in profondità la situazione è ancor più grave: a dieci metri sotto il livello del mare la concentrazione di microplastiche va dai 30 pezzi per metro cubo nel canale di Corsica, a 117 nei pressi dell’isola del Giglio, a 253 alla foce dell’Arno. Con il risultato che quaranta pesci su cento contengono mediamente 7,6 pezzi di plastica ciascuno. Le leggi non sono sufficienti, occorre imporre un nuovo modello di sviluppo economico e sociale, come oggi recita anche la Costituzione, oltre a mettersi in gioco individualmente, impiegando tutte le nostre risorse per contribuire a produrre un cambiamento funzionale al miglioramento dell’intera società. E questo è compito della politica.