Ormai siamo abituati alla notizia di una imbarcazione carica di migranti che affonda nel Mediterraneo. Possiamo solo provare a immaginare il terrore di quegli esseri umani imbarcati su un “viaggio della speranza” per garantire un futuro a se’ o ai propri figli, ma, con tutta la fantasia, mai potremo veramente capirne l’atrocità di quei momenti. Se, infatti, si ha la possibilità di sentire la diretta testimonianza di uno di uno dei sopravvissuti, si è travolti da una onda di dolore ogni volta nuovo e inimmaginato, che risveglia gioco forza le coscienze – almeno si spera – e fa meglio comprendere come le soluzioni ad oggi messe in campo, per quanto pienamente legittimate dalla necessità di trovare una soluzione, alla prova dei fatti non sembrano evitare il dramma umano.
L’associazione umanitaria Baobab Experience, che da anni si occupa della accoglienza dei profughi transitanti in Italia, sta raccogliendo nello spazio “Verba migrant“ questi frammenti di racconti di vita convinti di dovere raccontare, denunciare e diffondere il più possibile la realtà che si nasconde dietro i freddi annunci dei media che, per frequenza, rischiano di sviluppare una sorta di immunizzazione.
L’ultima voce raccolta da Baobab è quella di David, 21 anni, sopravvissuto all’ultimo naufragio:
“La guardia costiera tunisina – si legge in Verba migrant – si accosta alla nostra piccola imbarcazione e i militari a bordo iniziano a picchiarci con dei bastoni. Poi la motovedetta comincia a girarci attorno creando onde sempre più alte. L’imbarcazione oscilla tantissimo e siamo sul punto di ribaltarci. In un attimo il panico si diffonde tra tutti i passeggeri. Le donne e i bambini gridano. A quel punto, la motovedetta punta dritto verso di noi, a tutta velocità e sperona l’imbarcazione. Iniziamo a imbarcare velocemente acqua, la barca affonda e noi finiamo tutti in mare. Le mamme cercano di tenere a galla i bambini più piccoli, ma sono tante le persone che non sanno nuotare. Molti di noi non avevano mai visto il mare prima di allora.
I militari sulla motovedetta tunisina sono lì, a poca distanza, a osservare la nostra lotta contro la morte. Non intervengono: ci guardano affogare. Un’ora e mezza dopo, quando già troppi corpi sono stati risucchiati negli abissi, i sopravvissuti, stremati, vengono caricati a bordo, ammanettati e deportati in Tunisia. Io sono tra loro.
In Tunisia c’è un camion ad aspettarci, veniamo ammassati dentro il container e, dopo 400 km di viaggio, abbandonati nella zona desertica al confine con l’Algeria, senza acqua né cibo. Ho camminato per 25 chilometri nel deserto, incontrando cadaveri lungo il cammino, con le mani legate dietro la schiena. Quando finalmente sono riuscito a raggiungere il primo villaggio algerino, ho bussato alla porta di una casa con i piedi: avevo ancora ai polsi le manette di quando ci avevano catturati in mare”.