Rush finale del vertice Onu per il clima. Slitta l nella notte la firma della dichiarazione congiunta dei Paesi partecipanti. Proseguite fino alla fine le trattative sui punti critici come la tempistica della decarbonizzazione, tanto che alla prima bozza dell’accordo finale ne è seguita una seconda.
“Molto è stato raggiunto ma siamo ancora lontani dal finalizzare le questioni più critiche che sono rimaste in sospeso”. Sono le parole del presidente della COP26, Alok Sharma, che ha aggiunto: “Non credo che possiamo spingere eccessivamente per le difficoltà che ci sono. Se fosse stato facile lo avremmo risolto negli ultimi sei anni”. Il grande accusato è il carbone. Quaranta Stati si sono impegnati per la prima volta ad eliminarlo entro vent’anni ma la situazione globale appare squilibrata. Mentre L’Italia non ha più miniere e ne fa un utilizzo marginale (l’80% del consumo nazionale di energia elettrica è costituito da gas e rinnovabili), all’appello mancano firme importanti come quelle di Russia, India, Australia e Stati Uniti. La Cina, in testa alla classifica di produzione e consumo, ha promesso lo stop sulle centrali all’estero ma non su quelle in casa, toccando proprio ora il record di produzione con 12,05 milioni di tonnellate in un giorno solo.
Cosa è cambiato tra la prima e la seconda bozza
Nella seconda e definitiva bozza del documento finale sono rimasti, rispetto alla prima versione, gli obiettivi di puntare a rimanere sotto 1,5 gradi di riscaldamento globale dai livelli pre-industriali, tagliare le emissioni di anidride carbonica del 45% al 2030 rispetto al 2010 e arrivare a zero emissioni nette di CO2 intorno alla metà del secolo. Restano anche la richiesta di “profonde riduzioni nelle emissioni di gas serra che non sono anidride carbonica” e l’invito all’aggiornamento urgente degli obiettivi di decarbonizzazione (Ndc) per quei Paesi che non lo hanno ancora fatto, ma sparisce la previsione di un ulteriore aggiornamento entro la fine del 2022. Rimane invariato il riconoscimento dell’importanza del ruolo dei giovani, delle donne e delle comunità indigene nella lotta alla crisi climatica. Sparito, invece, l’invito ad attivare entro il 2023 il fondo da 100 miliardi di dollari all’anno per i Paesi meno sviluppati. Ci si limita solo a sollecitare “i Paesi sviluppati a deliberare pienamente e urgentemente sull’obiettivo dei 100 miliardi di dollari fino al 2025”, sottolineando l’importanza della trasparenza nell’attuazione dei loro impegni.
Mancano ancora obblighi e regole concrete
Indefiniti i due paragrafi destinati al completamento del Paris Rulebook (le regole per attuare l’Accordo di Parigi) e alla trasparenza (le regole per comunicare i risultati di decarbonizzazione degli Stati), due dei dossier più spinosi in discussione a Glasgow. Di contro viene introdotta la decisione “di convocare una tavola rotonda ministeriale di alto livello sulle ambizioni pre-2030″ a partire dall’anno prossimo, tra i paesi firmatari dell’Accordo di Parigi”, e si richiede “alle parti di rivisitare e rafforzare gli obiettivi al 2030 negli Ndc, come è necessario per allinearsi all’obiettivo di temperatura dell’Accordo di Parigi, entro la fine del 2022″.
Mille miliardi l’anno i costi della transizione ecologica
Quel che è certo è che la transizione ecologica ha costi di adattamento considerevolmente più elevati rispetto alle stime iniziali. Da qui al 2050 potrebbero essere necessari per l’adattamento agli effetti della crisi climatica nel mondo fino a mille miliardi di dollari all’anno. Lo scrive l’Ipcc, il comitato scientifico sul clima dell’Onu, in una bozza del suo rapporto annuale che uscirà all’inizio del 2022, in cui si legge: “Le disposizioni esistenti per finanziare l’adattamento sono inadeguate di fronte all’ampiezza anticipata degli impatti climatici”.