È passata un po’ sotto silenzio, ma la decisione del Parlamento coreano, di vietare l’allevamento, la macellazione e la vendita di carne di cane, è una vera rivoluzione culturale che meritava una attenzione maggiore. Perché, come dice anche la Chiesa Cattolica, il loro uso è lecito, ma va assicurato rispetto e cura, essendo anch’esse creature divine. Purtroppo la legge appena approvata entrerà in vigore solo nel 2027, quando i contravventori potranno essere punito con il carcere fino a tre anni o con una sanzione fino a 30 milioni di won, corrispondenti a circa 21mila euro. Nel periodo di transizione saranno graziati i proprietari di fattorie e di ristoranti di carne di cane se entro tre anni chiuderanno o cambieranno la loro attività.
La norma è stata votata dall’Assemblea nazionale con 208 voti favorevoli a 0, segno di come il consumo di carne di cane fosse già in forte declino nel Paese, soprattutto fra i giovani. Ma in Corea esistono ancora circa 1.100 allevamenti, in cui vengono allevati 570.000 cani destinati a questo scopo e i ristoranti che servono carne di cane sono 1.600, i quali ovviamente non hanno accolto favorevolmente il Disegno di legge.
Per questo a novembre è stata organizzata una protesta vicino all’ufficio presidenziale di Seoul, con tanto di cani nelle gabbie, ottenendo nella formulazione finale un pacchetto di compensazione e un sostegno finanziario da parte del Governo che dovrebbe garantire il successo dell’operazione.
L’uso della carne di cane nella alimentazione umana in Corea ha avuto il suo particolare sviluppo durante l’occupazione giapponese (tra il 1910 e il 1945) e la Guerra di Corea (tra il 1950 e il 1953), in periodi, cioè, di scarsità di cibo, ma poi rimasto nella tradizione perché accompagnato dalla diceria che fosse in grado di sconfiggere il caldo durante l’estate. Fortunatamente tale convinzione è stata superata dalla maggiore diffusione dei cani come animali domestici. Purtroppo, però, la Corea era solo uno dei tanti Paesi che manteneva viva questa consuetudine, che resta perfettamente legale in Ruanda, Nigeria e Namibia, Vietnam, Indonesia, nello stato indiano del Nagaland e soprattutto in Cina, dove ogni anno a partire dal 21 giugno, ancora ha luogo lo Yulin, il Festival della carne di cane. In dieci giorni consecutivi si consuma una strage di oltre 10 mila animali, tenuti nella gabbia senza cibo né acqua e poi uccisi brutalmente e mangiati allo spiedo. Addirittura sopravvive la convinzione che terrorizzare i cani prima di ucciderli renda la loro carne più gustosa, tenera e dolce.
Molti di loro sono rubati alle famiglie di adozione. Nonostante l’indignazione mondiale e che, come rilevato dal ministero della sanità cinese, ogni anno nel Paese, muoiano circa 2-3mila persone a causa del virus della rabbia che si trasmette da un animale all’altro durante i lunghi viaggi in cui vengono trasportati ammassati uno sull’altro in condizioni tremende, soltanto 1 cinese su 5 è contrario a questo rito assassino e il 24% delle famiglie mangia carne di cane o di gatto almeno una volta alla settimana. Questo fa pensare che bisognerà ancora attendere l’abolizione di una tale tradizione ultracentenaria, che non può giustificare così tanta crudeltà e orrore.