Un risparmio per l’Inps per i decessi legati a Covid pari a 1,1 miliardi per il 2020, cifra che nel 2029 toccherà i 11,9 miliardi. I calcoli arrivano dal Rapporto di Itinerari previdenziali, e sono utili a
comprendere come su questo fronte, quello dei risparmi dell’Istituto si apra uno spiraglio importante nella trattativa tra Governo e sindacati sulla riforma previdenziale. “Il 96,3% dell’eccesso di mortalità
registrato nel 2020”, si legge nel rapporto, “ha riguardato persone con età uguale o superiore a 65 anni, per la quasi totalità pensionate. Considerando per compensazione l’erogazione delle nuove reversibilità,
si quantifica in 1,11 miliardi il risparmio, tristemente prodotto nel 2020 dal Covid a favore dell’Inps, e in circa 11,9 miliardi la minor spesa nel decennio”.
Posizioni più vicine
Nella sostanza i fondi per avvicinare le posizioni alle proposte di Cgil, Cisl e Uil, ci sono. L’esecutivo tuttavia ha come obiettivo non solo le prossime uscite pensionistiche, ma una riforma complessiva che
ponga fine al regime delle Quote, alle evidenti sperequazioni di un sistema più volte rattoppato e, soprattutto, per il premier Draghi calcolare l’assegno previdenziale solo sul versamento contributivo. In
questo percorso più serrato ci sono situazioni che segnano punti a favore del Governo, quando si sottolinea che il sistema come si è strutturato negli anni ha evidenti segni di squilibrio.
I dati su cui riflettere
All’1/1/2021, secondo l’analisi di Itinerari previdenziali, “Risultavano in pagamento presso l’Inps 423.009 prestazioni previdenziali con durata quarantennale, erogate cioè a persone andate in pensione nel lontano
1980 o ancora prima”. Tempi in cui era possibile uscire dal lavoro a 40 anni e ottenere la “baby pensione”. Una stortura – ma all’epoca c’erano leggi che lo prevedevano – che pesa ancora oggi sul sistema previdenziale.
Spiraglio sulla flessibilità
Il nodo da risolvere per i sindacati è come creare le condizioni per ridurre le penalizzazioni economiche a chi decida di andare pensione prima dei 67 anni. Il Governo apre in modo prudente alla flessibilità in
uscita. La possibilità è emersa durante l’ultimo incontro tenuto il 15 febbraio al Ministero del Lavoro, tra i delegati confederali Cgil, Cisl e Uil e i ministri Orlando e Franco. “La flessibilità è un elemento rispetto al quale il governo ha dichiarato di essere intenzionato a dare delle risposte”, commenta il segretario confederale della Cgil Roberto Ghiselli, “Attendiamo di conoscerne il merito”. Per l’Esecutivo rimane
tuttavia il solco tracciato dal premier, in sintesi prezzo da pagare per chi non ha i versamenti previsti ma vuole lasciare il lavoro prima di 67 anni, dovrà valutare il ricalcolo contributivo e un taglio dell’importo.
Sulla percentuale della decurtazione si discute. “Se comporta un taglio del 30%”, osserva Ghiselli, “come in Opzione Donna è inaccettabile”.
Nei prossimi giorni il Governo fisserà un nuovo appuntamento con i
sindacati, e mostrerà fino a che punto potrà spingersi nelle concessioni. Due sono le possibilità, la revisione dei coefficienti di trasformazione del taglio. Ad esempio al posto dei 67 anni si potrà
uscire dal lavoro a 64 anni, con un minimo di versamenti di 20 anni, questa scelta comporterebbe una penalizzazione del 3% per ogni anno di anticipo, quindi un assegno mensile decurtato del 9%. Secondo questa ipotesi il pensionamento anticipatoper i “contributivi puri”, che lavorano dal 1996, a 64 anni avrebbero 1.311 euro di pensione. I sindacati premono per rendere l’assegno più pesante, in questo percorso di ipotesi, torna in primo piano la proposta del presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, che indica un’uscita a 64 anni e 20 di contributi solo per la parte contributiva, ai quali si aggiungerebbe (per quanti erano al lavoro prima del 1996) in seguito quella retributiva al compimento dei 67 anni di età. Doppio calcolo quindi un assegno con un importo a 64 anni, che poi sale al compimento dei 67 anni di età.
Maggiori tutele
Nel caso di lavoratori discontinuino che non hanno maturato per versamenti quel coefficiente superiore a 1.5 il valore della pensione sociale – nel 2022 l’importo dell’assegno sociale Inps è di 468,10 euro
per tredici mensilità -, allora Governo e sindacati ragionano su un assegno sociale integrato con un importo legato ai contributi versati. In modo da rendere l’assegno superiore ai mille euro. Si tratta in questo caso per le fasce sociali e di lavoratori più deboli di una “pensione di garanzia” che si unirà a quelle tutele che sono in parte già state approvate, per i lavoratori disoccupati, per quelli impiegati in attività gravose e per gli invalidi.
Riflessioni e proposte
A sottolineare la metamorfosi del sistema italiano verso una maggior sostenibilità è il presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali Alberto Brambilla. “A oggi il sistema è sostenibile e lo
sarà anche tra 15 anni, nel 2035, quando le ultime frange dei baby boomer nati dal Dopoguerra al 1980 – in termini previdenziali assai significative, data la loro numerosità – si saranno pensionate”, spiega
Alberto Brambilla, precisando: “Perché si mantenga la sostenibilità pensionistica, sarà però indispensabile intervenire su 4 ambiti fondamentali: l’età di pensionamento, attualmente tra le più basse d’Europa (62 anni l’età effettiva in Italia contro i 65 della media europea), nonostante un’aspettativa di vita tra le più elevate a livello mondiale; l’invecchiamento attivo dei lavoratori, attraverso misure volte a favorire un’adeguata permanenza sul lavoro delle fasce più senior della popolazione; la prevenzione, intesa come capacità di progettare una vecchiaia in buona salute; le politiche attive del lavoro, da realizzare di pari passo con un’intensificazione della formazione professionale, anche on the job”.