L’Italia sconta la deindustrializzazione degli ultimi vent’anni
Gli italiani ogni giorno producono 5,8 miliardi di euro di Pil. Cifra che la Cgia di Mestre si è presa la briga di calcolare e che corrisponde a 99 euro al giorno per ogni cittadino, neonati e ultracentenari compresi. Quindi un calcolo approssimativo: gli attivi producono molto di più dei quasi cento euro a testa. Calcolo medio anche riguardo la disposizione geografica perché un trentino arriva a un Pil pro-capite di 146 euro, mentre un calabrese non tocca i 58 euro. In mezzo tutti gli altri a partire dal nord a scendere verso il sud. Come sempre quando si guardano solo i dati economici. Dal confronto con gli altri Paesi dell’Unione europea – scrive l’ufficio studi degli artigiani veneti – scontiamo un gap importante, soprattutto nei confronti dei Paesi del Nord Europa. Se in Lussemburgo la ricchezza giornaliera per abitante è di 336 euro, in Irlanda è di 266, in Danimarca di 179, nei Paesi Bassi di 164, in di Austria 149, in Svezia di 145 e in Belgio di 140. Tra i 27 Paesi dell’UE con 99 euro ci collochiamo al 12° posto.
Perse le grandi imprese
Il vero problema, però, sottolineato dal report settimanale è che l’Italia è stata abbandonata da grandi imprese e grandi player finanziari. “I Paesi con pochi abitanti – spiega Paolo Zabeo della Cgia – ma con una presenza importante di big company e di attività finanziarie, presentano tendenzialmente livelli di ricchezza nettamente superiori agli altri. In secundis va segnalato che l’Italia è un Paese che non dispone più di grandissime imprese e di multinazionali, ma è caratterizzato da un sistema produttivo composto quasi esclusivamente da micro e Pmi ad alta intensità di lavoro che, mediamente, registra livelli di produttività non elevatissimi, eroga retribuzioni più contenute delle aziende di dimensioni superiori – condizionando così l’entità dei consumi – e presenta livelli di investimenti in ricerca /sviluppo inferiori a quelli in capo alle grandi realtà produttive.”
Retribuzioni al palo
Dunque la lettura di questa situazione da parte degli artigiani mestrini è la seguente: al netto dell’inflazione, in questi ultimi 30 anni le retribuzioni medie degli italiani sono rimaste al palo, mentre in quasi tutta UE sono aumentate. Tra le cause del risultato italiano sono da annoverare la crescita economica asfittica e un basso livello di produttività del lavoro che dal 1990 ha interessato il nostro Paese, soprattutto nel settore dei servizi. Una delle cause di questo risultato va ricercato anche nel fatto che, a differenza dei nostri principali competitori europei, in questo ultimo trentennio la competitività del nostro Paese ha risentito dell’assenza delle grandi imprese. Queste ultime sono pressoché scomparse, non certo per l’eccessiva numerosità delle piccole realtà produttive, ma a causa dell’incapacità dei grandi player, spesso di natura pubblica, di reggere la sfida innescata dal cambiamento provocato dalla caduta del muro di Berlino e da “Tangentopoli”. Sino agli inizi degli anni ’80, infatti, l’Italia era tra i leader europei – e in molti casi anche mondiali – nella chimica, nella plastica, nella gomma, nella siderurgia, nell’alluminio, nell’informatica, nell’auto e nella farmaceutica. Grazie al ruolo e al peso di molti enti pubblici economici (Iri, Eni ed Efim) e di grandi imprese sia pubbliche che private (Montecatini, Montedison, Enimont, Montefibre, Alfa Romeo, Fiat, Pirelli, Italsider, Polymer, Sava/Alumix, Olivetti, Angelini, etc.), queste realtà garantivano occupazione, ricerca, sviluppo, innovazione e investimenti produttivi. A distanza di quasi 45 anni, purtroppo, abbiamo perso terreno e leadership in quasi tutti i settori in cui eccellevamo.