Un Paese civile e avanzato investe soprattutto sulle nuove generazioni, tutelandole dallo sfruttamento economico e da qualsiasi rischio per la “salute e lo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale o sociale”, come richiede l’articolo 32 della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza. Il Rapporto di Save The Children sul lavoro minorile in Italia presentato in questi giorni a Roma, però, restituisce una fotografia diversa anche del nostro Paese. Secondo il documento quasi 1 minore su 15 tra i 7 e i 15 anni ha avuto esperienze di lavoro, pari a un totale di 336mila tra bambini e adolescenti. Non solo. Il 27,8% dei 14-15enni che hanno già svolto una attività (circa 58mila adolescenti) dichiara che si sia trattato di lavori particolarmente dannosi per i percorsi educativi e il benessere psicofisico, perché svolti in orari notturni o in maniera continuativa durante il periodo scolastico.
Senza la formazione si resta nella stessa condizione di partenza
Dal rapporto “Non è un gioco”, la nuova indagine sul lavoro minorile in Italia, emerge una realtà di cui spesso non ce ne accorgiamo perché confluisce nel sommerso, strettamente legata alla povertà, alla dispersione scolastica e alla esclusione sociale. Una invisibilità aumentata dalla mancanza di una rilevazione statistica sistemica che lascia ombre sui suoi esatti contorni. Per la nostra legge a 16 anni è possibile iniziare a lavorare avendo esaurito l’obbligo scolastico, ma sappiamo che le possibilità di un riscatto sociale diminuiscono in forma proporzionale al grado di istruzione e che i giovani appartenenti alle fasce meno abbienti spesso iniziano ben prima di quella età. Il 20% dei 14-15enni, infatti, ha lavorato prima dell’età legale consentita. L’indagine evidenzia, inoltre, come la percentuale di genitori senza alcun titolo di studio o con la licenza elementare o media sia significativamente più alta tra gli adolescenti che hanno avuto esperienze di lavoro, un dato che testimonia la trasmissione intergenerazionale della povertà e dell’esclusione. Solo il 38,5% afferma di lavorare per il piacere di farlo, anche se il dato fa comunque riflettere.
Minori coinvolti in attività tradizionali ma anche nell’online
I settori prevalentemente interessati dal fenomeno del lavoro minorile sono: la ristorazione (25,9%); la vendita al dettaglio nei negozi e attività commerciali (16,2%); le attività in campagna (9,1%) e in cantiere (7,8%); le attività di cura con continuità di fratelli, sorelle o parenti (7,3%). A queste si affiancano nuove forme di lavoro online (5,7%), come la realizzazione di contenuti per social o videogiochi, il reselling di sneakers, smartphone e pods per sigarette elettroniche. Più della metà degli intervistati lavora tutti i giorni o qualche volta a settimana e circa 1 su 2 lavora più di 4 ore al giorno.
La mancanza di lavoro spinge i minori verso l’illegalità
Al conseguente insuccesso formativo e abbandono degli studi va aggiunta una altra criticità. La recessione, non generando nuova occupazione, può spingere i minori svantaggiati ad intraprendere attività lavorative illegali, gestite dalla criminalità. In collaborazione con il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità del Ministero della Giustizia, è stata condotta anche un’analisi relativa ai minori e giovani adulti nei circuiti penali, con l’obiettivo di indagare e comprenderne le esperienze di lavoro minorile in connessione ad altri fenomeni come la dispersione scolastica, la condizione di inattività sia professionale che formativa e il coinvolgimento in circuiti illegali. Quasi il 40% degli intervistati ha svolto attività lavorative prima dei 16 anni e circa il 10% ha svolto il primo lavoro all’età di 11 o 12 anni e il 9,3% prima di aver compiuto 11 anni.
Tra coloro che hanno svolto lavoro minorile prima dell’età legalmente consentita, il 97,2% è composto da maschi e il 75,6% da cittadini italiani. Il 62,4% dei minori e giovani adulti coinvolti nell’indagine ha dichiarato di aver lavorato più o meno tutti i giorni e il 28,8% qualche volta a settimana.