Dopo vent’anni torna in Italia l’imprenditore Chico Forti condannato negli USA per il reato di omicidio, ma nel mondo moltissimi altri nostri connazionali restano in carceri che non sempre garantiscono condizioni umane e un giusto processo. Ma di loro non se ne parla.
È stato accolto con molto favore dal nostro Paese il tanto auspicato e atteso ritorno di Chico Forti, detenuto in USA e in attesa da oltre un ventennio di far ritorno in patria seppur sempre nella condizione di carcerato. Il suo caso, però, apre inevitabilmente una serie di interrogativi sulle condizioni e sulla sorte degli altri 2.600 detenuti italiani all’estero in attesa di giudizio o di estradizione.
Recarsi presso un Paese estero implica il rispetto delle leggi locali, una mancata osservanza porta inesorabilmente all’ingresso in un labirinto giudiziario di cui si conosce l’entrata ma non la via d’uscita. Secondo i dati forniti dalla Farnesina e da alcune organizzazioni sindacali, gli italiani detenuti all’estero sono oltre 2.600, la maggior parte detenuta nelle carceri della Germania (1.079). Segue la Spagna (458), la Francia (231) e il Belgio (202). Nei Paesi extraeuropei primeggia il Regno Unito (192) seguito dalla Svizzera (131) e dagli Stati Uniti (91). Un numero di detenuti italiani, si riscontra anche nei paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’Oceania. Una metà di loro ha ricevuto una vera condanna in via definitiva mentre l’altra metà resta in attesa di giudizio, con sentenze non definitive, o in attesa di estradizione.
Una nota del Centro Studi Penitenziari del Coordinamento Nazionale Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane (Co.N.O.S.C.I.–APS) a firma Sandro Libianchi e Assunta Giordano ricorda che l’esecuzione della pena all’estero, regolamentata dal Decreto legislativo n 161/2010, prevede che la persona possa dare deliberatamente il proprio consenso al trasferimento e che vengano rispettati gli accordi tra l’Italia e lo Stato estero. Oltremodo, la convenzione di Strasburgo prevede che entrambi gli Stati siano d’accordo sul trasferimento, che il reato venga ritenuto tale anche nel Paese di destinazione e che la pena che resta da scontare sia almeno di sei mesi.
Le accuse mosse, proseguono Libianchi e Giordano, sono prevalentemente di possesso di droga e di furto. In alcuni casi, come quello dell’italiano A.G.C. detenuto nel carcere di Abu Dhabi e le cui accuse non sono ancora del tutto chiare, le autorità sembrano avanzare l’ipotesi di favoreggiamento terroristico. Nei casi più gravi, come quello dell’italiana I.B., detenuta e successivamente rilasciata dal carcere di Higuey, vengono avanzate accuse di omicidio volontario. Alcune di queste accuse di reato risultano vere, ma ce ne sono altrettante che non sono del tutto dimostrabili vedendo degli innocenti dichiararsi colpevoli o perché incastrati o perché non a conoscenza della lingua locale.
Le organizzazioni umanitarie, nonché gli stessi parenti, denunciano da tempo le pessime condizioni carcerarie che i detenuti italiani vivono nelle carceri estere. Come l’italiano F.M., ventinovenne detenuto nel carcere di Porta Alba in Romania costretto a condividere una cella di circa 30 mq con altri 24 detenuti in condizioni igienico-sanitarie disastrose. O addirittura c’è chi vi ha perso la vita, come il trentaseienne D.F. deceduto nel carcere francese di Grasse o il bancario S.R., deceduto nel carcere messicano di Playa del Carmen per mancata assistenza sanitaria.
Secondo la associazione Co.N.O.S.C.I la ragione principale dietro questa situazione complicata risiede nell’assenza di fondi che rendono debole l’intervento dei consolati e della Farnesina. Come dichiara Katia Anedda, presidente della Onlus “Prigionieri del silenzio”, è necessario che la politica intervenga affinché possano essere rivisti o sottoscritti gli accordi stipulati tra i diversi Stati per poter garantire ai detenuti italiani all’estero, condizioni più umane di trattamento e la possibilità di potersi difendere senza dover spendere centinaia di migliaia di euro, spesso non disponibili, per potersi garantire un giusto processo.