Le case famiglia, che da anni hanno sostituito per legge gli orfanotrofi, sono in grave crisi, con una situazione finanziaria sull’orlo del collasso. Responsabili ne sono gli enti locali, i Comuni in particolare, sui i cui bilanci pesano i contributi pubblici dovuti alle associazioni che se ne occupano. Se è vero che a loro volta i Comuni spesso devono fare i conti con bilanci esigui, dall’altra pesa il fatto che quella dei bambini in affido, tolti alle proprie famiglie per ragioni di fragilità familiari estreme, non è una voce di spesa tra le preferite dai sindaci per le ricadute che poi ha sul consenso elettorale. La situazione, quindi, varia da territorio a territorio. Quella del Lazio è tra le peggiori.
Nel Lazio mancano 60 ML di euro
Le cifre indicate nel report “Come funziona e quanto costa una casa famiglia” di Casa al Plurale, l’associazione che dal 2006 rappresenta le organizzazioni che operano sul territorio a sostegno delle persone con disabilità, dei minori in stato di abbandono e delle donne con figli che vivono in situazioni di grave fragilità, parlano chiaro: nel Lazio, a fronte di un fabbisogno attuale di quasi 150 milioni di euro, le amministrazioni comunali coprono solo circa la metà dell’importo. Per le case famiglia di Roma e del Lazio, cioè, mancano più di 60 milioni di euro. Il costo giornaliero per la gestione dei ragazzi allontanati dalla famiglia di origine dal Tribunale dei minori o dai servizi sociali oscilla tra i 261,62 e i 285,29 euro in base all’età. La retta erogata dalla Regione ammonta a meno di 100 euro cadauno. I responsabili dell’accoglienza hanno l’onere di trovare ogni giorno altri 190 euro per ciascun ospite. E se una struttura ne accoglie in media 6 alla volta, significa che ogni anno fiscale inizia con un buco di bilancio di oltre 400 mila euro. “Cibo, affitti, bollette, vestiario, istruzione e stipendi degli operatori: quale voce dovremmo tagliare per stare nelle tariffe pubbliche – domanda Fabrizio Gessini, presidente della cooperativa sociale romana “Il Tetto Casal Fattoria”, responsabile di 5 comunità di accoglienza per minorenni che accolgono quasi 50 bambini e ragazzi -? Spese mediche come psicologo o dentista non sono coperte dalle rette. Municipi e Comuni le erogano ai residenti, escludendo nomadi e minori stranieri non accompagnati, a volte trattenendo il 5% di Iva”.
Raccolta fondi e 5×1000 l’ultima speranza
La sopravvivenza di queste strutture resta, quindi, affidata alla raccolta fondi, il 5×1000 e l’autofinanziamento. Ma anche qui, per quanto riguarda la raccolta fondi, ci si scontra con il problema del monopolio del fund raising da parte delle grandi associazioni umanitarie, che agli occhi del donatore risultano più affidabili delle piccole iniziative, e con il progressivo crollo delle donazioni in genere. L’inflazione, poi, indebolendo il potere di acquisto degli italiani, sta contribuendo a dare il colpo di grazia. “Ogni donazione – commenta Gessini – per noi è straordinaria, nel senso letterale di fuori dall’ordinario e, dunque, da interpretare come accessoria. Al contrario dei contributi, che nei casi peggiori arrivano anche dopo anni e al termine di contenziosi legali. In questi casi o si chiedono prestiti alle banche, cui si cede una quota del dovuto per coprire gli interessi o si ritardano i pagamenti di fornitori e dipendenti. C’è chi capisce e aspetta e chi taglia i servizi”. Da anni le associazioni chiedono di decidere in merito all’adeguamento delle tariffe ma restano inascoltate. La soluzione probabilmente sarebbe quella di far rientrare questi costi sociali nel bilancio di Stato generale oppure a carico delle Regioni al pari dei Lea, i livelli di assistenza sociale essenziali.