Le carceri, come tutti i contesti confinanti, sono, per propria natura, concentratori di vulnerabilità sociali e sanitarie. Ma se a questo si aggiungono anche gli altri i problemi dei nostri istituti detentivi, dal sovraffollamento alle carenze di personale, la possibilità che si trasformino in luoghi ad alto rischio per la salute psichica e fisica diventa una certezza. Ne abbiamo parlato con il dottor Sandro Libianchi, dirigente medico per quasi 30 anni nelle carceri italiane e oggi cofondatore e presidente della associazione Co.No.Sci.
Dottor Libianchi, di che si occupa la vostra associazione?
È una associazione nata nel 2000 a Roma per la tutela della salute nelle carceri italiane, non solo nel periodo detentivo, ma anche in quello post-carcerario, durante il reinserimento sociale, e, se possibile, anche nel pre-carcerario.
Cosa vuol dire esattamente?
Faccio un esempio. Il problema della tossidipendenza ha una forte incidenza sulla popolazione carceraria ed è il movente che spinge le persone a delinquere. Cerchiamo, quindi, di intercettarle prima, collaborando con i Ser.D. (Dipartimenti per le politiche antidroga).
Quanto sono presenti nelle nostre carceri il problema della dipendenza dalle droghe e quelli di altra natura mentale?
Secondo l’unica ricerca italiana, condotta nel 2014 su un campione di 16.000 persone, i detenuti affetti da patologie psichiche, psichiatriche e/o da tossidipendenza rappresentano il 41,3% del totale. Quasi la metà degli intervistati.
Per loro sono previste delle celle ad hoc e dei trattamenti sanitari specifici, è una misura che viene rispettata?
Le rispondo con i numeri. Per le persone gravemente malate dal punto di vista psichico ne sono state programmate 32 in tutta Italia su circa 200 carceri (adulti e minori). Le Regioni, la cui competenza esclusiva è stata stabilita dal DCPM dell’1 aprile 2008, si giustificano per i costi sono troppo elevati, ritenendo che sia una responsabilità dello Stato reperire fondi speciali allo scopo. Il risultato è che non tutti usufruiscono dei servizi previsti.
Mi sta dicendo che è possibile che coabitino persone con disturbi mentali, più o meno gravi, o dipendenze con persone che non li hanno, magari in celle sovraffollate e alle temperature elevatissime di questa estate rovente?
Si, è possibile. E per quanto riguarda il caldo, le nostre celle non hanno l’aria condizionata né gli scuri alle finestre per una questione di sicurezza. Per avere dell’ombra usano le camicie o degli stracci. A questo aggiungiamo che il 71% dei detenuti sono fumatori e che possono fumare nelle celle, si può solo immaginare il risultato.
Più che un carcere assomiglia sempre di più a un girone infernale e a una polveriera pronta a esplodere. Dobbiamo a questo l’aumento dei suicidi in carcere?
È vero che i suicidi sono leggermente aumentati nell’ultimo anno, ma sono sempre stati tanti. In questi 30 anni hanno mantenuto la media dei 50-60 l’anno a causa di quel rischio di “malattia vera” indotta dal contesto. La cosa che i detenuti temono di più e che può farli precipitare nello sconforto totale sono i telegrammi, forieri quasi sempre di cattive notizie: la richiesta di divorzio dal coniuge in libertà, la perdita del lavoro o la sentenza con una condanna lunga attesa magari da molto tempo.
E in quei momenti esiste una assistenza sanitaria che sostenga e accompagni il detenuto a elaborare la sua nuova dimensione?
No, non si riesce a fronteggiare la situazione nel suo complesso e le risposte sono inappropriate e carenti. Il personale medico è troppo sottostimato e questo vale per tutte le malattie, pregresse o che si sviluppano in carcere. I medici sono circa la metà di quelli necessari e non sono mai stati neanche determinate le dotazioni organiche necessarie ad ogni carcere.
Di che numeri stiamo parlando? Quante e quali patologie sono presenti?
Impossibile avere un quadro d’insieme perché l’unico monitoraggio fatto dalle Regioni, che sarebbe obbligatorio per legge, risale al 2010. Secondo la ricerca che le citavo prima, più recente e imparziale, tra l’altro il 49,7% dei detenuti è sovrappeso o obeso per l’inattività, il 14,5% ha problemi all’apparato digerente e l’11,4% presenta patologie cardiocircolatorie, dall’ipertensione a cardiopatie vere e proprie, solo per fare degli esempi. Ognuno avrebbe bisogno di cure adeguate per non parlare della prevenzione, che è quasi totalmente assente.
Di che tipo?
Per quanto riguarda le epidemie, nelle carceri non esistono solo le malattie a trasmissione area, come il Covid, ma anche quelle a trasmissione ematica, attraverso i rapporti sessuali non protetti o lo scambio di siringhe che i tossicodipendenti continuano a usare di nascosto. La distribuzione dei presidi sanitari, come i preservativi o siringhe nuove, aiuterebbe a contenere alcuni di questi contagi. In altri Paesi europei lo stanno facendo, come in Germania, Grecia, Macedonia e Spagna. In questo momento c’è molta attenzione per l’epatite C, ma solo per la pressione delle case farmaceutiche, perché le cure sono tra le più costose.
Di chi sono le responsabilità maggiori?
Come ho detto, la competenza è regionale. Parliamo delle scelte politiche alla base della gestione dei bilanci. Se non si fanno i monitoraggi continui e sistematici, non si riesce neanche a produrre un modello organizzativo organico e uguale per tutti. Le Regioni vanno ognuna per conto loro, ma tutte presentano carenze o nel numero del personale o nei fondi messi a disposizione o nell’organizzazione.
Questa assenza di cure e di assistenza può generare da parte delle persone detenute una sorta di rifiuto della società che a sua volta porta alle recidive?
Si, sicuramente non li ben dispone. La maggior parte di morti di overdose sono persone appena uscite dal carcere che sentono il bisogno di “consolarsi”, di fare un qualcosa per sanare la sofferenza, fosse anche solo una sbronza.
Oltre a una assistenza psicologica e sanitaria più attenta, cosa potrebbe aiutare un loro recupero?
Il poter lavorare, occuparsi di qualcosa, costruirsi l’idea di un futuro post-carcerazione. Ora la sigaretta è il loro maggior passatempo.