Il 15 novembre a Lecce un altro carcerato si toglie la vita e con lui si raggiunge la cifra record di 77 suicidi in carcere dall’inizio del 2022, ben oltre la media degli ultimi anni. Una media già molto alta (intorno ai 66 suicidi l’anno), ma abbastanza stabile, mentre ora assistiamo a un vero e proprio incremento. Abbiamo chiesto al dottor Libianchi, Presidente della associazione “Coordinamento Nazionale degli Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane” ed “Esperto” presso il Tribunale Ordinario di Sorveglianza di Roma, di aiutarci a capirne le ragioni.
Dottor Libianchi, cosa sta succedendo nelle nostre carceri?
Prima di formulare ipotesi con le quali cercare di risponderle, vorrei aggiungere dei dati. Al numero dei suicidi accertati, vanno aggiunte altre 180 morti in carcere, la cui natura è ancora da accertare, oltre a un numero non definito di tentati suicidi. Solo così si può avere il quadro completo della situazione e avviare un studio epidemiologico su basi scientifiche, che faccia davvero luce sul fenomeno e individui aree di intervento. Finché da una parte non ci sarà una raccolta dei dati sistemica e dall’altra esisterà una platea di decisori molteplici, con gradi di autonomia l’uno rispetto all’altro, sul piano regionale o per competenze, non è possibile costruire modelli operativi efficaci di vera prevenzione. Per comprendere appieno la gravità del momento aggiungo anche che il numero di suicidi probabilmente è destinato a crescere prima della fine dell’anno.
Lei, però, si sarà fatto una qualche idea sul perché i suicidi stanno aumentando così tanto.
Come ho detto, senza la casistica siamo nel mero campo delle ipotesi. Credo, in linea di massima, che il sistema abbia imparato a difendersi. Con questo intendo che tutte le risorse a disposizione, a cominciare dal personale medico, si stiano concentrando più sull’aspetto burocratico, le carte da riempire, utili per difendersi dalle indagini che conseguono eventi di questo tipo, più che sul rapporto umano, su una vera conoscenza dell’individuo privato della libertà. Il numero dei moduli da riempire cresce sempre di più, soprattutto nelle carceri di grandi dimensioni, ma il personale e le ore lavoro restano le stesse. Se devo riempire una decina di questionari per soggetto non avrò certo il tempo di approfondire e conoscere davvero la persona che ho davanti e il suo livello di rischio.
L’esperienza sul campo dice che statisticamente il rischio suicidario si manifesta all’ingresso nel carcere (anche l’ultimo caso lo dimostra), quando forse la persona prende davvero coscienza di cosa significhi perdere la libertà. Perché allora non è in quel momento che l’assistenza psicologica si concentra?
Tutte le incombenze vengono esperite, a cominciare dal colloquio di sostegno con lo psicologo, ma il tempo è poco, per il sottodimensionamento del personale e quell’infinità di moduli di cui parlavo prima. In pochi minuti è davvero possibile riuscire a cogliere la gravità del disagio di una persona? Questo rapporto, sempre più umanamente lontano, sicuramente incide sul primo impatto che il carcerato ha con il sistema, con possibili conseguenze drammatiche.
Chi ne ha la responsabilità e chi potrebbe cambiare le cose?
Alla fine non sono neanche le singole istituzioni le vere responsabili, quanto l’intero sistema così come concepito. Ci vorrebbe la creazione di un ente terzo, con libero accesso ai dati, in grado di trasformarli da mere statistiche in fenomeni da analizzare per creare nuovi modelli operativi, magari avvalendosi dell’aiuto delle università o di centri di ricerca scientifici. Un ente terzo che poi controlli anche che questi modelli vengano correttamente applicati. Se poi ci fossero delle sanzioni per gli enti che non rispettano le procedure, sarebbe sicuramente un fattore decisivo.