Le politiche green vero volàno di redditività

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Lo insegna la storia, ne sono convinti gli economisti

In ambito imprenditoriale permane una certa resistenza a considerare la sostenibilità come un asset strategico, ritenendo il suo perseguimento esclusivamente controproducente, un costo aggiuntivo con soli benefici sociali difficilmente monetizzabili. Eppure la esponenziale crescita economica mondiale che ha caratterizzato il XX secolo quasi da subito ha reso evidente quanto la stessa avrebbe prodotto danni collaterali. Secondo Giulio Boccaletti, Direttore Scientifico del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici e Docente di Strategia e Sostenibilità all’Università di Oxford, le risorse naturali dalle quali l’economia stava estraendo valore sostenevano un costo non contabilizzato, un’esternalità che rischiava di minare alle fondamenta la crescita sociale.

Negli Anni ’70, infatti, nasce il Club di Roma, fondato da Aurelio Peccei, basato sulla convinzione del neo-malthusianesimo che l’evidente limitatezza della Terra non poteva che restringere le nostre aspirazioni di crescita. Però solo negli Anni ’80 si comincia a cercare una sintesi tra le preoccupazioni ambientali e le aspirazioni di sviluppo, riassunte nel rapporto “Il futuro di tutti noi” del 1987, prodotto dalla Commissione Brundtland delle Nazioni unite. Il documento definì lo “sviluppo sostenibile” come quello che risponde ai bisogni del presente, senza compromettere la capacità di future generazioni di soddisfare i propri bisogni.

Una decina di anni dopo, nel primo summit sulla Terra delle Nazioni unite del 1992 furono siglati i primi accordi quadro sul clima, sulla biodiversità e sulla desertificazione che, oggi, sono l’architettura internazionale sulla quale si costruiscono iniziative di politica industriale improntate alla sostenibilità, come Next generation Eu e il Pnrr.

Sono anche gli anni in cui l’economista Kenneth Arrow formalizza l’ipotesi che ci sia una relazione a forma di ‘U invertita’ tra danni ambientali e reddito pro-capite ispirata dall’idea che i Paesi partissero poveri e con un basso impatto ambientale, attraversando poi un periodo di crescita economica che danneggiava l’ambiente. Recuperare l’ambiente, però, non significa necessariamente un ritorno alla povertà, ma piuttosto la consapevolezza che oltre un certo livello l’aumento di ricchezza porta con sé un’attenzione per le condizioni materiali e gli strumenti per migliorarle, riducendo l’impatto ambientale, fosse anche per la finitezza delle materie prime naturali o gli equilibri/squilibri geo-politici.

Ne è conseguito che ai giorni nostri finalmente i mercati sono costretti a porre maggiore attenzione alla sostenibilità perché è sempre più radicato il convincimento che la crescita economica è, sì, causa di problemi ambientali, ma può anche esserne la principale soluzione. Il laboratorio manageriale “Eccellenze d’impresa” sostiene che è evidente che la soluzione al problema del cambiamento climatico sia, per  esempio, l’elettrificazione dell’economia e lo sviluppo di tecnologie alternative di produzione, stoccaggio e trasporto dell’energia, dalle rinnovabili alle batterie e all’idrogeno. 

Continuare a parlare, dunque, di queste trasformazioni industriali ispirate alla sostenibilità come di un costo sull’economia reale significa non averne compreso la forza propulsiva. In un suo recente articolo, Giulio Boccaletti sostiene che ostinarsi in questa convinzione sarebbe come considerare l’introduzione del modello T della Ford nel 1908 come un inutile costo, poiché rappresentava un rischio per le vendite di cavalli e calessi.

“La sostenibilità – scrive Boccaletti – non è altro che una particolare modalità di creazione di valore, adeguata ai bisogni dominanti della contemporaneità. Con tutta probabilità, essa sta al XXI secolo come la seconda rivoluzione industriale stava al XX. Capirne le implicazioni non è un problema di compliance, ma una delle sfide strategiche più importanti del nostro tempo”.