L’uccisione dell’ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio, ha acceso un faro su una terra martoriata da guerre, malattie e traffici illeciti legati allo sfruttamento delle materie prime. Un dramma al quale le missioni di peacekeeping dell’Onu non sembrano essere in grado di porre alcun rimedio e davanti al quale siamo troppo pronti a girarci dall’altra parte. Per non dimenticare, abbiamo chiesto un aiuto a Padre Giulio Albanese, il noto africanista missionario comboniano (Editorialista dell’Osservatore Romano e di Avvenire), per provare a comprendere un po’ meglio l’intreccio di interessi che affliggono quei popoli.
Padre Giulio, anche lei nell’agosto 2002 è stato al centro di una sparatoria tra i ribelli dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra) e i militari ugandesi per quello che è stato diplomaticamente definito un “errore di comunicazione”, potrebbe essersi verificata la medesima situazione?
In ogni caso, un qualche errore da parte delle forze di sicurezza internazionali presenti sul territorio è stato fatto?
La comunità internazionale è sempre stata alla finestra a guardare e le Nazioni Unite da questo punto di vista hanno fatto una pessima figura. Da tempo la società civile del Nord Kivu sta duramente contestando la forza di peacekeeping delle Nazioni Unite (Monusco) presente nella Rdc, definendola ‘inerte’ e accusandola di non riuscire a proteggere la popolazione civile. E cosa dire dell’Europa tanto preoccupata dalla mobilità umana che proviene dalla sponda africana? Sarebbe ora che uscisse dal letargo, sostenendo tutte le possibili iniziative a livello negoziale per amore del popolo congolese e per onorare la memoria del nostro ambasciatore, uomo di pace e di solidarietà.
In che contesto socio-politico si inserisce l’uccisione di un nostro ambasciatore?
Quanto è avvenuto il 5 marzo scorso nei pressi della cittadina congolese di Kanyamahoro è raccapricciante. L’uccisione dell’ambasciatore Luca Attanasio, di Vittorio Iacovacci, carabiniere della sua scorta e del loro autista è un fatto terribile. Eppure, sarebbe davvero fuorviante pensare che quell’imboscata tesa da un commando di miliziani, finora non meglio identificati, sia un episodio a sé stante, che prescinde dal contesto geopolitico di quella tormentata parte dell’ex Zaire, la provincia del Nord Kivu. Questo evento luttuoso ha richiamato solo oggi l’attenzione sulla drammatica situazione del Congo, ma da quelle parti le cose vanno tremendamente male da troppi anni. Una terra che continua a essere bagnata da sangue innocente, inspiegabilmente e colpevolmente ignorata da gran parte della stampa nazionale e internazionale.
Tante le piaghe: circa 160 formazioni di ribelli, il traffico illegale di armi, ebola e la povertà endogena…
Innanzitutto, è bene chiarire che non si tratta assolutamente di un Paese povero, semmai di una terra impoverita. È il paradosso di una delle nazioni più ricche al mondo di materie prime, ma con insediata una delle popolazioni più povere del pianeta. Proprio la popolazione del Nord Kivu potrebbe essere più benestante di quella del Canton Ticino se potesse gestire le immense risorse minerarie del proprio sottosuolo: oro, cobalto, petrolio, manganite, cassiterite e coltan. Quest’ultimo è al top nell’elenco delle commodity. Si tratta di una lega naturale di columbio e tantalio e viene utilizzato per i più svariati scopi industriali, che vanno dall’assemblaggio dei satelliti spaziali, alla realizzazione della componentistica di cellulari, tablet, computer e altri gadget elettronici. Purtroppo, i continui approvvigionamenti di armi e munizioni da parte di paesi terzi interessati a che la situazione rimanga nel caos più totale consente a miliziani, trafficanti e mercenari di detenere il controllo delle terre e il sistematico sfruttamento delle risorse naturali che vengono svendute al miglior offerente. E sullo sfondo, gruppi economici “occulti”….
A chi allude?
L’interesse verso quelle risorse va dall’America alla Cina passando per l’Europa, è terra di conquista di tutte le potenze straniere, ora come allora. E la corruzione è il perno intorno al quale gira tutto. Ma ricordiamoci che dove c’è un corrotto c’è un corruttore, dove c’è offerta c’è domanda.
Può farci un esempio di come questo incida di fatto sulla povertà locale?
Proprio in questi giorni, nella regione congolese del Sud Kivu, è stata rinvenuta una miniera d’oro a cielo aperto. La scoperta sarebbe avvenuta casualmente ad opera di un manipolo di contadini con il risultato che, trattandosi di un filone aurifero molto superficiale, si è scatenata la classica febbre dell’oro con centinaia di persone d’ogni rango che si sono riversate sul luogo del ritrovamento. Purtroppo, dopo poco tempo, le forze dell’ordine hanno circondato la zona e preso il controllo della miniera considerata formalmente proprietà demaniale. Nel frattempo pare che siano in corso delle trattative per assegnare il lotto di terra a qualche compagnia mineraria straniera. È un esempio emblematico di quanto sta avvenendo, in piena pandemia, nel settore orientale della Repubblica Democratica del Congo (Rdc).
Rimane il fatto che l’estrazione delle materie richiede mano d’opera e rappresenti in ogni caso occupazione?
Allude per caso a quell’unico dollaro al giorno a bambino nelle miniere di cobalto?
Quindi, stiamo dicendo che tutti noi siamo responsabili della povertà del continente africano, le cui popolazioni sono costrette oggi a migrare, cercando di raggiungere le nostre coste sui barconi della fortuna?
Ripetiamolo: legname pregiato, rame, cobalto, coltan, diamanti, oro, zinco, uranio, stagno, argento, carbone, manganese, tungsteno, cadmio, cassiterite e petrolio sono commodity che fanno gola a tutte le grandi potenze industriali, complici di accrescere corruzione e sfruttamento dissennato di queste risorse naturali. Come se non bastasse, le agenzie di Rating, nel silenzio più assoluto della stampa internazionale, hanno declassato lo scorso anno, le economie dei mercati emergenti, molti dei quali africani, a seguito della pandemia. Si tratta di un fenomeno con un impatto fortemente speculativo, sia per quanto concerne l’aumento del costo dei prestiti sia in riferimento all’indebolimento dell’offerta di capitale da parte degli investitori stranieri. I declassamenti hanno minato i fondamentali macroeconomici dell’intero continente, riducendo il valore delle obbligazioni sovrane come garanzia nelle operazioni di finanziamento delle banche centrali e spingendo i tassi di interesse in alto. Inevitabile l’ aumento del costo del debito pubblico dal quale alcuni paesi africani non usciranno mai, ridotti in uno stato di moderna “schiavitù” o, comunque, sudditanza finanziaria.